Sappiamo Viaggiare?
Esistono legami affascinanti tra le nostre emozioni e le parole che utilizziamo per descriverle.
Per essere bravi attori o anche, semplicemente, persone con cui vale la pena andare a cena la sera,
bisogna provare e suscitare emozioni.
Per farlo, è bene che le emozioni si conoscano, che si sappia di che cosa si sta parlando…
e ce ne sono tantissime con cui esercitarsi.
Quindi continuerò a raccontarvene qualcuna su ispirazione del libro di Tiffany Watt Smith.
Parliamo delle emozioni che hanno a che fare con i VIAGGI.
Che siano viaggi con un trolley o dentro di te, decisi da te o da altri, poco importa.
Cosa si prova quando si resta, si parte, si torna, si lascia, si aspetta…?
Non si pò parlare di un viaggio senza pensare subito al suo nemico naturale.
C’è un impulso, infatti, che spinge a stabilirsi in maniera permanente in un territorio, a lavorare nello stesso luogo, tutta la vita: a rimanere presumibilmente sempre uguali a se stessi. È un vero e proprio bisogno spesso, e anche se temiamo di essere poco ambiziosi l’ideale sarebbe riconoscerlo. Fu chiamato dai frenologi ABITATIVITÅ. La Frenologia era una dottrina secondo la quale vi sarebbe una correlazione tra caratteristiche psichiche e forma del cranio, ma già nell’800 perse credibilità e con essa piano piano venne dimenticato il termine che indicava “l’amore per la continuità e la permanenza”. Non se ne perse però il sentimento.
Ne rimangono tracce infatti nella parola gallese HIRAETH, associata agli emigranti: è il sentire l’amore per la patria e la sua vulnerabilità. La si prova quando si torna a casa e si sa che prima o poi arriverà il momento di ripartire. È un desiderio malinconico, come se qualcosa, nella partenza, andasse perduto per sempre: e forse la lunga occupazione degli inglesi nel Galles spiegherebbe perché tanta familiarità con quest’emozione.
Diverse sono le sfumature del SENTIRSI A CASA - la Homefulness: una combinazione di sollievo appartenenza e soddisfazione alla fine di un percorso (ad esempio scendendo dall’aereo o davanti alla porta di casa dopo un lungo giorno di lavoro). Ma la casa non è solo un luogo fisico: sono anche le persone ( e gli animali) con cui vogliamo stare.
A quest’emozione se ne può affiancare un’altra: in casa nostra possiamo sentirci anche soli, circondati da quelle stesse persone care che però ci obbligano a vivere una vita ordinaria.
Ora immaginiamo di essere malinconici o insoddisfatti per natura, magari senza prospettive di lavoro, sentirci stretti in un piccolo meschino mondo sempre uguale, o essere stufi di accettare leggi e decreti anticostituzionali del paese a cui apparteniamo per nascita. O sentire che ci manca qualcosa, perché quello che abbiamo ci rende diversi da come vorremmo essere.
Ci capita di girare su internet e guardare veri e propri paradisi lontani. Qualcosa che altri hanno e noi no. O di avvertire la presenza di un confine mentale da superare.
Potremmo provare la nostalgia di un posto in cui non siamo mai stati. Vorremmo ritrovarci ovunque tranne nel posto in cui siamo. I finlandesi lo chiamano KAUKOKAIPUU (kauko (lontano) Kaipuu (brama).
O potremmo avere il DESIDERIO DI SCOMPARIRE: la prospettiva seducente di iniziare una nuova vita completamente diversa dal passato, di essere completamente liberi e padroni di noi stessi. Ci fu un tempo in cui senza carta d’identità, internet, controlli di vario genere era una possibilità e non una fantasia. E forse una traccia di quella selvaggia libertà in noi - grazie anche alle fiabe e alla letteratura - è rimasta più viva di quanto pensiamo…
Lo so, questi pensieri potrebbero portarti allo SPAESAMENTO: il sentirsi straniero, fuori posto.
E quando si è molto lontani dalla vera “casa”, questa stessa emozione può farci girare la testa con un senso di leggerezza: e allora un’avventura improbabile diventa possibile e il mondo nuovo diventa un posto da scoprire.
Da una certa irrequietezza, al solo pensiero di tutto questo, esplode in noi laWANDERLUST: un desiderio bruciante di avventura e scoperta, la voglia di fare esperienza diretta di una cosa diversa. La parola indica anche semplicemente il desiderio di spingerci in bicicletta oltre una montagna, uscire dall’autostrada e addentrarsi in una via sconosciuta. E’ la sensazione che la nostra vita ha senso solo se stiamo “viaggiando” diretti da qualche parte.
Ora supponiamo di esserci dati il permesso di un lungo, rigenerante, sorprendente viaggio.
Cosa può succedere se ci accorgiamo all’improvviso di non essere ancora pronti al un grande cambiamento che tutti i viaggi ti offrono?
Cosa può succedere quando cominciamo a mettere in relazione le nuove terre che abbiamo appena conosciuto con la vita di tutti i giorni che consideriamo “reale”?
Dopo avere sperimentato la Wanderlust , potremmo provare un grosso malessere : LA NOSTALGIA DI CASA. Delle persone che abbiamo lasciato e quindi di tutto quello che eravamo. La stessa sofferenza che debilitava l’esercito nei secoli passati: i medici di allora la consideravano una vera e propria epidemia che poteva mettere a repentaglio intere missioni e spingere molti soldati al suicidio. Oggi questa emozione è sicuramente legata all’esperienza della migrazione: é la frattura che si crea forzatamente tra l’essere umano e la terra natia, ed è un fatto crudele e punitivo. In entrambi i casi.
C’è anche un altro genere di nostalgia di casa: ce l’hanno gli Outsider che non appartengono mai né a un posto né all’altro. O la sente chi vuole tornare a casa a Natale perché gli manca l’odore di casa e sa lucidamente che potrebbe essere ancora peggio per lui tornare indietro.
Cosa succede a chi invece, decide di non partire?
C’è una bellissima emozione a dedicata chi, “nel porto” - fisico o mentale - ci resta…
Gli abitati del Portogallo a questo proposito, al tempo delle Grandi Scoperte, avevano incominciato a parlare di SAUDADE (sau-dad). È una parola legata al fado e a tutta la musica afro brasiliana e ci parla di quel desiderio malinconico di qualcosa o qualcuno che è molto lontano o perduto, che sia un amore o un felice passato. E porta con sé la nostalgia, la rassegnazione e il piacere insieme, per luoghi distanti e per oggetti smarriti.
Se invece fossimo stati semplici ospiti di qualcuno, quel senso di vuoto che rimarrebbe alla nostra partenza, sarebbe chiamato da una tribù della Papua Nuova Guinea, AWUMBUK: andandocene, avremmo lasciato una coltre di pesantezza, avvertita come inerzia o indolenza da chi ci ha ospitato: in compenso, goduto il soggiorno, noi saremmo partiti felici e leggeri.
E mentre in quelle isole nel sud del modo sarebbero andati a dormire finalmente felici (con in casa una ciotola di acqua, tutta la notte) gli Inuit dell’Artico si sarebbero seduti fuori dalla tenda provando l’ IKTSUARPOK: sensazione di irrequietezza per la prossima visita, l’attesa trepidante del rumore della prossima slitta.
Praticamente la stessa sensazione che proviamo quando ossessivamente controlliamo un telefono per vedere se arriva la risposta ad un messaggio, o le notifiche di Fb al nostro ultimo aggiornamento di status). Insomma sarebbero stati sopraffatti da quel forte desiderio di stabilire di nuovo contatti umani.
Un modo come un altro per dire nel mondo c’è sempre qualcuno che ti aspetta.
Pronto a partire o deciso a restare, è sempre importante lasciarsi con un Hwyl…un lampo di eccitazione, ispirazione, una certa esuberanza per la prossima avventura. Gli inglesi chiamano così la vela di una barca e la parola con cui si dice addio: Hwyl (U-il) fawr (Vai col vento in poppa)!
Che emozione hai provato di più? Quale non conosci ancora?
Che tu sia ospite in terre lontane per un breve periodo, un Host in cerca di compagnia e arricchimento, un outsider che non si troverà mai di fronte ad una vera scelta, un guerriero coraggioso in cerca della tuo senso; uno pronto ad intraprendere un viaggio interiore o oltreoceano con un biglietto di sola andata. O uno che ha deciso semplicemente di muoversi…. Ad ognuno di noi un rassicurante ed eccitante:
Hwyl!